Pennelli intinti di girasoli
di Stefania Mereu
di Stefania Mereu
È quasi con un velo di soggezione che Paul sta per bussare a quella porta.
Il fratello di Vincent, Theo, lo attende. Ha bisogno di sapere, di capire il perché di quel gesto.
Una necessità da colmare che è quasi un’intima presenza invadente. Deve capire perché, in realtà, non è mai riuscito a percepire fino in fondo come poterlo aiutare; così come farebbe un vero amico, anziché scappare dopo quello che gli aveva fatto. Toc, toc, toc. – Signor Gauguin, benvenuto. Si accomodi.
– Signor Van Gogh, grazie a voi per aver acconsentito a ricevermi…
– Ci conosciamo da troppo tempo, non credete? Forse è giunto il momento che mi chiamiate Theo – gli dice, quasi interrompendolo con impercettibile imbarazzo.
– Certo, Theo, avete ragione. – Abbassa lo sguardo e aggiunge – Ciò che è successo mi ha profondamente scosso. Immagino cosa sarà stato per voi. Da quel momento non faccio altro che pensare a Vincent e sento che avrei potuto essergli d’aiuto in un altro modo. Non riuscirò mai a perdonarmelo.
– Non dovete provare un tale patimento: lo penso davvero. So quanto Vincent vi voleva bene; per lui eravate un amico che stimava. Ha sempre cercato la vostra approvazione, anche se non si sentiva all’altezza di emularvi nelle sue tele. In fondo, neanche io l’ho mai capito, eppure era mio fratello; forse l’ho aiutato nel modo sbagliato. Ricordo cosa mi scrisse prima del vostro arrivo alla Casa Gialla. Lavorava alle tele sui girasoli come se arredare con quei fiori la camera destinata a voi, e lo studio che dovevate condividere, fosse il miglior modo per accogliervi, per donarvi la sua essenza, il suo lato vitale. Ma non solo: anche quel lato che è contrario e si contorce, che tribola addirittura nella ricerca della Luce, ma destinato a spegnersi. Avevo capito che fermare, su dei pannelli, quel fiore era un modo di donarsi completamente. Sono fiori mossi a cercare il Sole, lo sapete, ma destinati ad appassire presto. Così come era lui. La sua tribolazione interiore era stata illuminata da quella luce del Sud che aveva cercato, poi trovato e quindi da fermare per forza, su quelle tele. Dipingere quel colore, in tutte le sue varianti, era l’unica maniera per inchiodarlo nel suo IO più profondo. “Il girasole, in qualche modo, è mio”, mi diceva o mi scriveva nelle sue lunghe lettere.
– Di quei fiori ne parlò anche a me, al mio arrivo ad Arles. Poi, nel mostrarmi le prime tele sui girasoli, mi fece girare la casa come un bimbo che deve far vedere, entusiasta, i più bei giocattoli. Notai una strana luce nel suo sguardo, difficile da spiegare. E la rividi durante la gita al Campo dei Girasoli.
– Sì, avete ragione.
– Utilizzava il giallo in modo compulsivo come se fosse l’unico colore tra i tanti a dover avere un significato speciale, ma allora non l’avevo capito. Anzi, fu da quel primo momento di convivenza che lo giudicai pazzo. Ecco perché rifuggii, in un certo senso, dalla sua amicizia. Leggevo del talento in lui, lo ammetto, ma… ricordate che solo una persona gli aveva acquistato un quadro? Chissà, se almeno post mortem qualcuno lo capirà e magari apprezzerà i suoi dipinti. Theo, mi sento in colpa per averlo abbandonato dopo che tentò di uccidermi; per punirsi si mozzò un orecchio e temetti per la mia vita. Ma credo di aver sbagliato a scappare.
– Tutti abbiamo sbagliato con lui. A iniziare dalla mia famiglia, fin dal giorno della sua nascita.
– "Non sono pennelli intrisi di giallo, ma è come se fossero già intrisi dei girasoli", questo pensai quando lo ritraevo, mentre ne dipingeva uno della serie dedicata a quel fiore. Non compresi allora e lo criticavo, anche in maniera diretta, violenta. Per ore discutevo con lui e mi arrabbiavo per come mischiava in modo disordinato i pigmenti! Arrivai a pentirmi di aver accettato la vostra offerta di lavoro che comprendeva il mio soggiorno ad Arles, ma da condividere con Vincent. Non so, onestamente, se posso riconoscergli anche adesso quella capacità pittorica che nessuno di noi ha mai capito e apprezzato. Però… perché sento di aver sbagliato con lui e questo mi pesa come un macigno? Perché il suo suicidio mi sta divorando l’anima? Ditemi, Theo…
– So cosa state provando. Eppure, quando io osservo i suoi quadri e, in particolar modo, quelli che ritraggono i suoi girasoli, sento una sorta di intimo perdono. Quasi come se quel fiore “che era suo” mi potesse placare questo turbamento… c’era poca gente al suo funerale, sapete? Non ne sarete sorpreso.
– Avete ragione, Theo, non lo sono.
– C’era anche l’amico che avevate in comune, Emile Bernard.
– C’era anche l’amico che avevate in comune, Emile Bernard.
– Lo so.
– Ah, un’altra cosa: non è stata benedetta neanche la sua bara, ma l’ho fatta ricoprire di fiori gialli. Si trova interrato ad Auvers, di fianco al muro del cimitero.
– Theo, ora, devo andare. Non so se vi rivedrò più… sto cercando di racimolare il più possibile per andare a Tahiti e chissà se mai ci riuscirò nei prossimi mesi. Addio.
– Addio, signor Gauguin e grazie per la vostra visita.
– Theo, ora, devo andare. Non so se vi rivedrò più… sto cercando di racimolare il più possibile per andare a Tahiti e chissà se mai ci riuscirò nei prossimi mesi. Addio.
– Addio, signor Gauguin e grazie per la vostra visita.
Un tramonto color ocra abbraccia Paul, quando lascia quella casa. Nei suoi occhi rivede Vincent, durante la gita nel Campo dei Girasoli. Lo ricorda rapito da quella distesa di fiori gialli, ove il suo sguardo si trasformava come se fosse calato in una dimensione impossibile da spiegare al mondo.
Come gli altri, Paul, poteva solo essere spettatore passivo di ciò che, per Van Gogh, rappresentava quel colore, quel fiore. – Spero che riuscirai almeno lì a trovare un po’ di serenità, amico mio. E che tu possa, in qualche modo, avermi già perdonato…
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