Bionda follia in un “sogno”
di Stefania Mereu
Ospedale Psichiatrico Giudiziario.
Mi fanno scendere dall’auto e sono animato soprattutto da un’emozione: la paura.
Non so cosa mi aspetta all’interno di quel parco lussureggiante, percorso da viali e edifici bassi.
Un secondo cancello sulla sinistra si apre improvvisamente. Voltandomi sono impacciato dalle manette. Un signore ci viene incontro. È alto, corpulento, sguardo stralunato. Si presenta ai miei “accompagnatori” in modo cortese.
Dopo aver parlottato con loro si avvicina a me. Non è impaurito.
Mi mette la mano sulla spalla, accenna ad un sorriso e dice: “Sono Jack, tu devi essere Luis.”
Non bado proprio al suo nome, visualizzando solo il badge che ha appuntato nel petto con su scritto: “n. 0013”.
“Sì, signor 13, sono Luis. Credo.” Lo penso, senza dire nulla.
M’intimidisce la sua folta barba.
“Bene, Luis. Ho capito...”
Guardo mia madre, che ancora si è materializzata davanti a me.
È così triste il suo sguardo. Quello materno che mi ha sempre confortato e protetto fin da quand’ero bambino. Non riesco a staccarle gli occhi di dosso se non per l’attimo che ho dedicato a quella silenziosa presentazione.
“… ma vedrai che ti troverai bene da noi. Fra poco conoscerai la dottoressa. Ti visiterà, ti curerà e tu devi solo collaborare”
La voce del signor 13 è cortese anche con me. Il tono però non ammette repliche.
Tanto di replicare non ho proprio voglia.
Mia madre si materializza di nuovo e annuisce rivolta a 13.
Ora lei ha gli occhi lucidi. Mi getta le braccia al collo e anche io col pensiero la stringo con forza. “Non lasciarmi, non lasciarmi qui! Per favore, mamma!” urla una voce dentro di me; quella che non faccio uscire se non da uno sguardo impaurito che non mi permette mai e poi di proferir alcuna parola. Zitto, Luis! Urlo dentro.
Mia madre scioglie l’abbraccio in modo rassegnato, le lacrime le scendono in silenzio, bagnandole i capelli biondi. Senza singhiozzi.
La mia mente la inghiotte ancora una volta, senza appello.
Dopo aver percorso un viale lungo circa cinquanta metri, 13 apre la porta d'ingresso dell'edificio, nell'ala destra. Lo seguo come un’ombra invadente.
Ho paura.
Uno degli “accompagnatori” intanto mi libera delle manette.
Entriamo, percorrendo un grande atrio, in diagonale. Tutti gli occhi dei presenti sono puntati su di me.
Grandi finestre troneggiano imponenti in ogni lato, fino al soffitto. Gli alberi del parco si trasformano in mostri dalla bruttezza inaudita. Hanno occhi illuminati di verde o di rosso, la loro pelle coperta di squame nere e tante lunghe zampe fuoriescono dal loro addome. Mi ritraggo spaventato alla loro vista. Uno dopo l’altro cercano di penetrare quei vetri. Vorrei urlare. Zitto, Luis.
Signor 13 mi prende la mano, ma la ritraggo verso il mio petto. Non deve toccarmi. Non voglio che lo facciano. Il mio sguardo si trasforma da dentro i miei occhi. Improvvisamente divento io il mostro. Scelgo quello più orribile tra quelli del parco, fuori dall’atrio. Ho gli occhi rossi, io.“Luis, stai tranquillo. Voglio solo accompagnarti, ecco perché ti prendo la mano.”
Il mostro che è in me scompare improvvisamente dopo le sue parole. E anche i mostri di fuori.
“Non mi tocchi!”
Lo penso, ma non dico nulla. Congiungo le mani dietro la schiena. L’una nell’altra, si stringono in una morsa che non posso allentare.
“Seguimi” dice 13 in tono fermo, aprendo una porta di ferro.
Un corridoio lunghissimo ci inghiotte come un esofago con il suo bolo alimentare appena masticato. Lo percorro sempre dietro a 13. Io sono la sua ombra.
Si ferma improvvisamente davanti ad una delle tante porte. Tira fuori un mazzo pieno di chiavi e la apre con cinque giri. “Questa è la tua stanza. La dividerai con Albert”
Con coraggio, entro. È piccola, semibuia e puzza di urina. In uno dei due letti c’è un tizio di mezza età. Indossa una camicia da notte. Seduto si culla in un ritmo costante, con le gambe pendule. Parlotta con non so chi. Lo sguardo è perso nel vuoto. Non si è nemmeno accorto che siamo entrati.
Mi siedo sull’altro letto. Voglio che le gambe ciondolino anche a me. Tocco con i piedi il pavimento. Le ritraggo perché il letto è troppo basso. Oppure io sono troppo alto. È un bel gioco però. Diminuisce la mia paura.
Il signor 13 appoggia la valigia sopra la sedia. Vuole andarsene e la paura anziché abbandonarmi si trasforma in terrore. Mi alzo dal letto e lo afferro per il collo.
Io voglio solamente che non mi abbandoni in questa stanza ora che Albert ha gli occhi verdi.
Mi strattona spaventato dalla mia reazione. Stringo quell’uomo senza capire quanta forza ci sto mettendo. Troppa. Ad un tratto mi sento bloccato. Odo il suono di un campanello. No. È una sirena dal suono crescente. Diventa così invadente, penetrante. Non mollo la presa.
Mi tengono fermo. Riesco solo a dimenarmi.
Sbatto il muso a terra. Mi cola sangue dalle labbra. Le tocco con le dita sporcandole di sangue. Rivedo così la scena della notte precedente.
Sangue, tanto sangue bagnava i tuoi capelli biondi.
Un altro flash. La scena di tre giorni prima.
Sangue, tanto sangue.
Un altro ancora, quello di una settimana prima.
Sangue, tanto sangue.
Ecco perché forse sono qui. Ora lo ricordo.
Forse.
Una donna in camice bianco esce fuori dal capannello di persone nel corridoio, facendo il suo ingresso nella stanza.
Si ferma davanti a me.
Altri due uomini entrano stringendo cinghie e bavaglio.
Non riesco a parlare, perché vogliono imbavagliarmi?
Pesantemente mi buttano sul letto. Mi vogliono legare e imbavagliare. Sento una puntura sul braccio come se un’ape mi avesse punto arrabbiata.
È lì per farmi male.
Mi scaglio di nuovo verso di loro, cercando di liberarmi con il braccio non ancora legato.
Voglio la donna in camice bianco.
Anche lei stringerei a me. Sì...
Capelli biondi.
Io odio i capelli biondi.
“Prima o poi, toccherà anche a te!” lo penso e basta.
Forse.
Prima di cadere un sonno profondo.
Ora anche lei è nel mio solito “sogno”. Come mia madre, le due donne bionde e… sangue, tanto sangue.
Mi fanno scendere dall’auto e sono animato soprattutto da un’emozione: la paura.
Non so cosa mi aspetta all’interno di quel parco lussureggiante, percorso da viali e edifici bassi.
Un secondo cancello sulla sinistra si apre improvvisamente. Voltandomi sono impacciato dalle manette. Un signore ci viene incontro. È alto, corpulento, sguardo stralunato. Si presenta ai miei “accompagnatori” in modo cortese.
Dopo aver parlottato con loro si avvicina a me. Non è impaurito.
Mi mette la mano sulla spalla, accenna ad un sorriso e dice: “Sono Jack, tu devi essere Luis.”
Non bado proprio al suo nome, visualizzando solo il badge che ha appuntato nel petto con su scritto: “n. 0013”.
“Sì, signor 13, sono Luis. Credo.” Lo penso, senza dire nulla.
M’intimidisce la sua folta barba.
“Bene, Luis. Ho capito...”
Guardo mia madre, che ancora si è materializzata davanti a me.
È così triste il suo sguardo. Quello materno che mi ha sempre confortato e protetto fin da quand’ero bambino. Non riesco a staccarle gli occhi di dosso se non per l’attimo che ho dedicato a quella silenziosa presentazione.
“… ma vedrai che ti troverai bene da noi. Fra poco conoscerai la dottoressa. Ti visiterà, ti curerà e tu devi solo collaborare”
La voce del signor 13 è cortese anche con me. Il tono però non ammette repliche.
Tanto di replicare non ho proprio voglia.
Mia madre si materializza di nuovo e annuisce rivolta a 13.
Ora lei ha gli occhi lucidi. Mi getta le braccia al collo e anche io col pensiero la stringo con forza. “Non lasciarmi, non lasciarmi qui! Per favore, mamma!” urla una voce dentro di me; quella che non faccio uscire se non da uno sguardo impaurito che non mi permette mai e poi di proferir alcuna parola. Zitto, Luis! Urlo dentro.
Mia madre scioglie l’abbraccio in modo rassegnato, le lacrime le scendono in silenzio, bagnandole i capelli biondi. Senza singhiozzi.
La mia mente la inghiotte ancora una volta, senza appello.
Dopo aver percorso un viale lungo circa cinquanta metri, 13 apre la porta d'ingresso dell'edificio, nell'ala destra. Lo seguo come un’ombra invadente.
Ho paura.
Uno degli “accompagnatori” intanto mi libera delle manette.
Entriamo, percorrendo un grande atrio, in diagonale. Tutti gli occhi dei presenti sono puntati su di me.
Grandi finestre troneggiano imponenti in ogni lato, fino al soffitto. Gli alberi del parco si trasformano in mostri dalla bruttezza inaudita. Hanno occhi illuminati di verde o di rosso, la loro pelle coperta di squame nere e tante lunghe zampe fuoriescono dal loro addome. Mi ritraggo spaventato alla loro vista. Uno dopo l’altro cercano di penetrare quei vetri. Vorrei urlare. Zitto, Luis.
Signor 13 mi prende la mano, ma la ritraggo verso il mio petto. Non deve toccarmi. Non voglio che lo facciano. Il mio sguardo si trasforma da dentro i miei occhi. Improvvisamente divento io il mostro. Scelgo quello più orribile tra quelli del parco, fuori dall’atrio. Ho gli occhi rossi, io.“Luis, stai tranquillo. Voglio solo accompagnarti, ecco perché ti prendo la mano.”
Il mostro che è in me scompare improvvisamente dopo le sue parole. E anche i mostri di fuori.
“Non mi tocchi!”
Lo penso, ma non dico nulla. Congiungo le mani dietro la schiena. L’una nell’altra, si stringono in una morsa che non posso allentare.
“Seguimi” dice 13 in tono fermo, aprendo una porta di ferro.
Un corridoio lunghissimo ci inghiotte come un esofago con il suo bolo alimentare appena masticato. Lo percorro sempre dietro a 13. Io sono la sua ombra.
Si ferma improvvisamente davanti ad una delle tante porte. Tira fuori un mazzo pieno di chiavi e la apre con cinque giri. “Questa è la tua stanza. La dividerai con Albert”
Con coraggio, entro. È piccola, semibuia e puzza di urina. In uno dei due letti c’è un tizio di mezza età. Indossa una camicia da notte. Seduto si culla in un ritmo costante, con le gambe pendule. Parlotta con non so chi. Lo sguardo è perso nel vuoto. Non si è nemmeno accorto che siamo entrati.
Mi siedo sull’altro letto. Voglio che le gambe ciondolino anche a me. Tocco con i piedi il pavimento. Le ritraggo perché il letto è troppo basso. Oppure io sono troppo alto. È un bel gioco però. Diminuisce la mia paura.
Il signor 13 appoggia la valigia sopra la sedia. Vuole andarsene e la paura anziché abbandonarmi si trasforma in terrore. Mi alzo dal letto e lo afferro per il collo.
Io voglio solamente che non mi abbandoni in questa stanza ora che Albert ha gli occhi verdi.
Mi strattona spaventato dalla mia reazione. Stringo quell’uomo senza capire quanta forza ci sto mettendo. Troppa. Ad un tratto mi sento bloccato. Odo il suono di un campanello. No. È una sirena dal suono crescente. Diventa così invadente, penetrante. Non mollo la presa.
Mi tengono fermo. Riesco solo a dimenarmi.
Sbatto il muso a terra. Mi cola sangue dalle labbra. Le tocco con le dita sporcandole di sangue. Rivedo così la scena della notte precedente.
Sangue, tanto sangue bagnava i tuoi capelli biondi.
Un altro flash. La scena di tre giorni prima.
Sangue, tanto sangue.
Un altro ancora, quello di una settimana prima.
Sangue, tanto sangue.
Ecco perché forse sono qui. Ora lo ricordo.
Forse.
Una donna in camice bianco esce fuori dal capannello di persone nel corridoio, facendo il suo ingresso nella stanza.
Si ferma davanti a me.
Altri due uomini entrano stringendo cinghie e bavaglio.
Non riesco a parlare, perché vogliono imbavagliarmi?
Pesantemente mi buttano sul letto. Mi vogliono legare e imbavagliare. Sento una puntura sul braccio come se un’ape mi avesse punto arrabbiata.
È lì per farmi male.
Mi scaglio di nuovo verso di loro, cercando di liberarmi con il braccio non ancora legato.
Voglio la donna in camice bianco.
Anche lei stringerei a me. Sì...
Capelli biondi.
Io odio i capelli biondi.
“Prima o poi, toccherà anche a te!” lo penso e basta.
Forse.
Prima di cadere un sonno profondo.
Ora anche lei è nel mio solito “sogno”. Come mia madre, le due donne bionde e… sangue, tanto sangue.
Uno dei miei preferiti. Beppy
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