venerdì 18 novembre 2011

Come carote dissotterrate (Tema: L'ARANCIONE. In Antologia AA.VV. Divisione Lab, Giulio Perrone Editore 2010)

Come carote dissotterrate
di   Stefania  Mereu

Ogni notte la mente mi riporta a quei giorni. Non c’è momento che qualcosa non si colleghi a quel periodo.
Sono tornato a calpestare il suolo della mia terra dopo oltre un anno. Un anno vissuto in un inferno lontano. Peggio del mio.
Eravamo tutti uguali, senza diritti, privacy, pensieri e parole. Liberati, se così si può dire, per novanta minuti alla settimana, divisi in tre mezz’ore e a giorni alterni. Ma a quella libertà, travestita da privilegio, io ho acceduto dopo mesi d’isolamento.
Eravamo tutti uguali: vestiti con tute color di carota.
Sembrava quasi che avessero scelto l’arancione per animare quel luogo di tortura.
Sì, sembravamo tante carote dissotterrate, quando ci liberavano, lasciandoci in quello spazio d’aria ristretto e delimitato da alte reti.
Ogni momento passato lì lo ricordo con la stessa disperazione di allora. E non si cancella.
Io sono solo uno dei tanti Sayed. Un essere umano come ce ne sono in ogni dove: bassottino, magro e pure brutto. Ma che aveva la fortuna di lavorare e sfamare la famiglia guidando un taxi.
Eppure, non sai quasi mai chi ti porti dietro.
Non sapevo di trasportare un signore della guerra, quella sera.
Senza poter avvisare la mia famiglia, un gruppo di soldati mi ha bloccato e sono stato portato a Gardez, per essere consegnato agli americani. A Kandahar mi hanno interrogato, picchiato e dopo circa un mese, e diversi interrogatori, mi sono trovato legato mani e piedi, trasportato come se fossi un pacco postale in un viaggio lungo e tormentato. Nulla delle percezioni che avevo durante quel viaggio arrivavano fino al senso della vista.
Certo, avevo anche un cappuccio in testa.
Non sapevo dove stavo andando. Pensavo alla mia famiglia, per la quale ero l’unica fonte di sostentamento.
Arrivato in quel luogo, sento nominare Camp Delta. Ma dove si trova? Dove mi trovo? pensavo.
Solo dopo giorni avevo potuto capire dove mi avevano portato: a Guantànamo. L’inferno riservato ai terroristi, o presunti tali come lo ero io, vestiti come tante carote in un orto dissodato.
L’inferno è lì, non qui. Ne sono sempre più convinto.
Oh, non avevano perso tempo e infatti mi ero trovato catapultato in una cella d’isolamento; non avevo quasi toccato il suolo cubano che già ero ingabbiato nuovamente in una minuscola cella. Quella, però, aveva le pareti in acciaio ed era sempre illuminata.
Ero controllato, ogni minuto.
Non potevo neanche coprire il volto per difendermi dalla luce; infatti era quasi impossibile dormire. Ma anche quella era una loro mossa volta a destabilizzarci.
Finito l’isolamento ne ebbi una più grande che era lunga circa due metri e cinquanta e larga neanche due. Meno male che non sono tanto alto di statura. Eravamo in otto, non dovevamo parlarci e il caldo era opprimente, più che in qualsiasi altro posto nel quale ero stato in tutta la mia vita.
– Ma io non sono un terrorista! – Quante volte l’ho urlato a quelli. Nulla: non mi credevano.
Lo dicevo quando m’interrogavano, o meglio, quando mi torturavano. Sul mio corpo avevano provato di tutto per farmi parlare. E ancora ne porto i segni. Chiedevo di poter avere qualcuno che mi aiutasse a difendermi. E invece attorno a me c’erano solo uomini vestiti con tute mimetiche pronti a deridermi, vessarmi e a colpirmi ancora. Ancora e ancora.
Venivano a prendermi sempre nel cuore della notte. Quegli appuntamenti non avevano un tempo definito. Non sapevo più se era giorno, notte, sera o mattina.
Un anno. Lungo, troppo lungo.
Quanto ho pregato che tutto finisse. Chiamavo mia madre dentro di me. Piangevo, pensavo alla mia famiglia. Mi chiedevo perché ero lì, seppur innocente e quelli non capivano ancora. E io non ero il solo non colpevole in quel luogo abitato dall’inferno; anche il mio amico tassista era innocente, ma forse è stato meno fortunato di me. Tanti prigionieri non erano affatto colpevoli.
Invocavo persino la morte, che più gentile mi avrebbe accolto tra le sue braccia. Anche alla morte ho urlato dentro il silenzio tombale che ormai m’implodeva dentro. Volevo Lei, pur di non vedere più la mia pelle denudata, tagliuzzata, picchiata o percorsa dalla corrente elettrica.
Finalmente, dopo un anno di prigionia, ad aprile 2003, hanno capito che non ero un terrorista. E così, firmando una liberatoria, affermavo per iscritto di “non aver mai avuto a che fare con Al Qaeda e i talebani”, e di “non aver mai avuto, o di avere futura intenzione di colpire gli interessi degli Stati Uniti e del suo popolo”.
E pensare che io l’avrei dichiarato, nero su bianco, fin dal primo momento.
Qui, nella mia terra, si respira ancora la polvere amara e insanguinata della guerra. Vivo quell'inferno, durato tredici mesi, solo dentro di me e mai si quieta; però è lontano e questa è già una gran fortuna.
Non ho più il taxi, vivo alla giornata, ma non ho più la tuta arancione che copre le mie ferite e… non mangio più le carote.

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